Confermata la teoria di Hawking sui «mostri celesti».
Il buco nero non è più nero. E Stephen Hawking aveva ragione: la luce può sfuggire dai mostri celesti spesso nascosti nel cuore delle galassie
(compresa la nostra Via Lattea) o disseminati nei loro infiniti spazi. L'astrofisico britannico lo aveva teorizzato oltre trent'anni fa, nel 1974, suscitando da allora polemiche tra favorevoli e contrari. Mancava una prova per stabilire la ragione ed ora, per la prima volta, questa viene raccolta da un gruppo di ricercatori guidati da Daniele Faccio del Dipartimento di fisica e matematica dell'Università dell'Insubria a Como. Ha collaborato alla ricerca Francesco Belgiorno dell'Università degli Studi di Milano e primo firmatario del lavoro in pubblicazione su Physical Review Letters.
Il buco nero nasce quando una stella muore se nella sua luminosa vita aveva una massa superiore ad una quantità stabilita. Allora la materia collassa e si concentra in uno spazio ristrettissimo manifestando una potentissima forza di gravità capace di trattenere qualsiasi cosa. Nulla può sfuggire dal suo orizzonte, nemmeno i fotoni che compongono la luce. Ed è proprio per questo che è «nero», perché i telescopi non riescono a vederlo. Ma Hawking, calcolando la temperatura dei mostri (la quale dice quanto brilla un corpo celeste), aveva constatato che pur essendo un miliardo di volte più bassa di quella dello spazio circostante (270 gradi sotto lo zero centigrado) dimostrava che qualcosa sfuggiva.
Il processo è stato ricostruito in laboratorio a Como illuminando con un laser un blocco di vetro con particolari caratteristiche. «I fotoni della luce interagendo con il materiale molto denso - spiega Daniele Faccio - riproducono lo stesso effetto che si verifica nella zona circostante il buco nero battezzata "orizzonte degli eventi". Qui accade, e lo abbiamo misurato, che una particella, il fotone a frequenza negativa, venga assorbita e quella che lo accompagna a frequenza positiva emerga. A separarli è proprio l'orizzonte e una volta divisi non possono più ricongiungersi». Ma uno dei due, potendo sfuggire, diventa appunto rilevabile. Così nasceva la «radiazione di Hawking» com'era stata chiamata dopo la formulazione della teoria da parte del geniale scienziato. Egli, infatti, sostiene che i buchi neri evaporano, si dissolvono con il tempo, perché fornendo l'energia ai fotoni che se ne vanno in continuazione questa, ad un certo punto, si esaurisce e del «mostro», alla fine, non resta più nulla.
Il risultato è frutto di spiegazioni, precisa il team leader del gruppo, che inglobano dalla teoria quantistica alla relatività generale di Einstein alle teorie sui buchi neri; cioè un insieme di concetti che animano la fisica più d'avanguardia. Tuttavia questi risultati non solo aprono una finestra sulla conoscenza di uno dei misteri più affascinanti del cosmo ma prospettano addirittura delle future applicazioni nel mondo delle telecomunicazioni quantistiche. «La radiazione di Hawking - commenta su New Scientist Ulf Leonhardt dell'Università inglese di St. Andrew's - non è più soltanto un sogno teorico ma è diventata finalmente qualcosa di reale».
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