sabato 17 dicembre 2011

Alla ricerca del fotone perduto per migliorare il fotovoltaico

Due nuove richerche aprono la strada allo sfruttamento della parte di energia solare che adesso va perduta in forma di calore: finora la tecnica era limitata alle applicazioni di laboratorio, ma questi risultati sono il primo passo per lo sviluppo di prodotti nel campo del fotovoltaico.

Architettura fotovoltaica
l sogno di realizzare celle fotovoltaiche ad alta efficienza, in grado di dare una svolta allo sfruttamento dell'energia solare, potrebbe essere più vicino, grazie a due ricerche indipendenti condotte rispettivamente da Arthur Nozik, chimico del National Renewable Energy Laboratory di Golden, Colorado e da Xiaoyang Zhu e colleghi dell'Università del Texas a Austin.

Per la maggior parte dei materiali, la conversione di fotoni di radiazione in elettricità è un fenomeno ben compreso. Si pone però un problema con i fotoni più energetici dello spettro visibile: quando questi incidono su un semiconduttore, gli elettroni ivi presenti vengono eccitati ad uno stato energetico superiore, nel quale possono partecipare al fenomeno di conduzione. Spesso però i fotoni nella parte violetta e ultravioletta hanno energia molto superiore a quella necessaria per il salto, e questa energia viene dispersa in forma di calore.

Molti anni fa, diversi studi dimostrarono un metodo per risolvere il problema: i fotoni più energetici infatti sono in grado di eccitare più di un elettrone se nel semiconduttore sono presenti particelle di dimensioni nanometriche chiamate quantum dot. Tale processo, noto come MEG (Mutiple exciton generation) è potenzialmente in grado di elevare l’efficienza delle celle fotovoltaiche ma è molto complesso da sfruttare nelle applicazioni: una volta generate, queste cariche extra non possono essere raccolte e convigliate in un elettrodo in modo efficiente.

L’anno passato, un gruppo di ricerca guidato da Bruce Parkinson, chimico dell’Università del Wyoming a Laramie, riferì sulle pagine di “Science” di aver realizzato un dispositivo con un solo strato di quantum dot di solfuro di piombo su un altro semiconduttore, in cui venivano eccitati più elettroni in risposta a una radiazione incidente, generando una notevole intensità di corrente: il dato veniva interpretato come una “firma” del fenomeno MEG. L’apparato sperimentale tuttavia non poteva essere considerato una cella fotovoltaica in grado di portare a un’applicazione tecnologica.

Nella ricerca di Nozik e colleghi si è riusciti a realizzare la prima cella fotovoltaica MEG. La svolta è stata raggiunta con una nuova metodica per la sintesi chimica e la lavorazione successiva dei quantum dot: il trattamento con idrazina e 1,2-etaneditiolo, in particolare, garantisce una notevole mobilità alle cariche elettriche.

Le misurazioni effettuate hanno mostrato un’efficienza di conversione della luce in elettricità del 5 per cento, molto inferiore a quella delle celle convenzionali. Tuttavia, si è ottenuto un notevole incremento nell’estrazione degli elettroni dai quantum dot, il che apre la strada all’implementazione del processo MEG in celle solari di uso pratico.

Nello studio di Zhu e colleghi, si è invece utilizzato un sistema modello a doppio strato di pentacene/fullerene. Grazie a una tecnica di spettroscopia non lineare a femotosecondi è stato possibile osservare uno stato a multieccitoni, una manifestazione molecolare del MEG nel pentacene.

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