Secondo gli studiosi di scienze sociali la scarsità dopo l’abbondanza è una causa primaria di agitazioni e violenze.
Il più in vista fra i sostenitori di questa idea è forse James Davies, che scrive che le rivoluzioni avvengono con la massima frequenza quando un periodo di progressi economici e sociali è seguito da un brusco rovescio. A ribellarsi generalmente non sono quindi le persone oppresse da sempre, che finiscono per considerare la loro indigenza quasi parte dell’ordine naturale delle cose, ma invece quelli che hanno potuto almeno assaggiare una vita meno dura: quando i miglioramenti sociali ed economici che hanno provato e che hanno cominciato ad aspettarsi diventano improvvisamente irraggiungibili, ecco che li desiderano più che mai e spesso si ribellano nel tentativo di ottenerli di nuovo.
Davies cita a conferma della sua tesi un’abbondante documentazione storica: dalla Rivoluzione Francese alla Rivoluzione d’Ottobre, fino a tutta una serie di insurrezioni che segnano la storia americana, dalla guerra di secessione alle rivolte dei ghetti negli anni ‘60. In tutti questi casi, a un periodo di crescente benessere è seguito un brusco rovesciamento di tendenza, che è sfociato nella rivolta.
I disordini razziali nelle città americane a metà degli anni ‘60 sono particolarmente istruttivi, anche perché più vicini nel tempo. Non era raro in quel periodo che si ponesse la domanda: «Perché proprio ora?». Pareva assurdo che nei loro tre secoli di storia, trascorsi in gran parte nella schiavitù e il resto in condizioni di vita miserevoli, i neri d’America scegliessero proprio una fase storica di apertura progressista per ribellarsi. In effetti, come sottolinea Davies, i venti anni dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale avevano portato enormi miglioramenti economici e politici alla popolazione di colore. Nel 1940 i neri erano sottoposti a rigide discriminazioni nei campi più diversi, dall’abitazione ai trasporti alla scuola, e a parità d’istruzione una famiglia di colore guadagnava in media poco più della metà di una bianca. Quindici anni dopo molte cose erano cambiate: le leggi federali avevano rotto la segregazione e c’erano stati grossi progressi economici (il reddito familiare medio dei neri era salito dal 56% all’80% rispetto a una famiglia bianca con lo stesso livello d’istruzione).
Ma poi, secondo l’analisi di Davies, questo rapido progresso è stato bloccato da una serie di eventi che hanno guastato l’ottimismo impetuoso degli anni precedenti. Primo, il cambiamento politico e legale si dimostrava più facile da realizzare del cambiamento sociale. Malgrado tutte le leggi progressiste degli anni ‘40 e ‘50, i neri vedevano che la segregazione nei fatti continuava, a scuola come sul lavoro o nei luoghi di residenza. Così le vittorie ottenute a Washington si traducevano in sconfitte alla periferia. Per esempio, nei quattro anni successivi alla decisione della Corte Suprema che, nel 1954, imponeva l’integrazione in tutte le scuole pubbliche, i neri sono stati vittime di 530 atti di violenza (intimidazioni, attentati con esplosivi, incendi dolosi) miranti a impedire l’applicazione della legge. Era la prima volta dagli anni ‘30, quando i linciaggi erano all’ordine del giorno (78 casi l’anno), che i neri dovevano temere per la propria incolumità fisica. La nuova ondata di violenza razziale non si limitava al problema dell’integrazione scolastica: le pacifiche marce per i diritti civili erano spesso aggredite da folle ostili (per non parlare dell’intervento della polizia).
Ci fu poi anche un’altra caduta, quella dei miglioramenti economici: nel 1962, il reddito medio di una famiglia nera era retrocesso al 74% del corrispettivo bianco. Ora, l’aspetto che conta in questa cifra non è l’aumento a lunga scadenza rispetto ai livelli degli anni ‘30, ma il declino a breve termine dal livello di benessere degli anni ‘50. L’anno dopo sarebbero venuti i disordini di Birmingham e poi, in rapida successione, tutta una serie di dimostrazioni violente, sfocianti nelle rivolte di Watts, Newark e Detroit.
In armonia con l’andamento storico delle rivoluzioni, anche fra i neri americani la ribellione era quindi più forte quando un lungo progresso segnava una battuta d’arresto che non prima che quel progresso cominciasse. È un fenomeno da cui può ricavare una lezione preziosa chi abbia ambizioni di governo: quando si tratta di libertà, la cosa più pericolosa è negarle dopo averle fatte intravedere o sperimentare per qualche tempo. Per un governo che voglia migliorare le condizioni di un gruppo storicamente oppresso o emarginato, il problema è che così facendo istituisce delle nuove libertà: dovessero malauguratamente venire a cadere o essere in qualche misura erose e circoscritte, le reazioni potrebbero essere incontrollabili.
Un’altra conferma della regola ci è data dagli avvenimenti che hanno determinato il crollo dell’Unione Sovietica. Dopo decenni di repressione, Michail Gorbaciov aveva concesso alla popolazione sovietica nuove libertà, privilegi democratici ed alternative, instaurando le politiche della glasnost e della perestrojka. Il 19 agosto 1991 un ristretto gruppo di alte autorità militari, politiche e dei servizi di sicurezza, in allarme per le novità insite nella linea politica del governo, tentò un colpo di mano militare: mise Gorbaciov agli arresti domiciliari e dichiarò di aver preso il potere, lasciando altresì esplicitamente trapelare l’intenzione di restaurare il vecchio ordine. Nel resto del mondo, i più si immaginarono che la popolazione sovietica, nota per la sua peculiare acquiescenza al soggiogamento, si sarebbe passivamente piegata come aveva sempre fatto. Anche il direttore del «Time» Lance Morrow ebbe questa impressione: «All’inizio, gli eventi successivi al colpo di stato sembravano confermare la norma: uno choc seguito immediatamente da un depresso senso di rassegnazione. Tutto chiaro: i russi stavano tornando alla loro identità più profonda, alla loro storia, come se all’aberrazione di Gorbaciov e della sua glasnost dovesse fatalmente seguire un ritorno alla normalità».
Ma non era così. Gorbaciov non aveva seguito la stessa linea degli zar o di Stalin o degli altri oppressivi presidenti postbellici, che avevano negato alle masse perfino le libertà più basilari; egli aveva invece concesso loro alcuni diritti e qualche possibilità di scelta democratica. Quando queste conquiste recentemente acquisite furono poste in serio pericolo, la popolazione si scatenò come un cane a cui avessero strappato un osso dalla bocca. Non erano trascorse che poche ore dal proclama della giunta quando migliaia di persone affluirono nelle strade, innalzando barricate, affrontando a viso aperto i soldati ed i loro carri armati e sfidando il coprifuoco. La sollevazione contro la minaccia alle conquiste della glasnost fu così immediata, così imponente, così compatta che dopo tre soli giorni di tumulti gli sbalorditi golpisti vennero a più miti consigli e si arresero, chiedendo la grazia al presidente Gorbaciov. Se fossero stati studenti di storia — o di psicologia — l’onda montante della resistenza popolare non li avrebbe sorpresi più di tanto. Entrambe le discipline avrebbero loro impartito, infatti, la stessa lezione: alla libertà, una volta che sia stata concessa, non si rinuncia senza lottare.
L’insegnamento vale non solo su scala nazionale o internazionale, ma anche nella politica domestica del governo di una famiglia. Il genitore che concede privilegi o impone regole in maniera incoerente non fa che invitare alla ribellione, istituendo involontariamente margini di libertà non voluti, che prima o poi cercherà di negare: a quel punto il figlio non si troverà semplicemente privo di un diritto che non ha mai avuto, ma si vedrà negare una sorta di diritto acquisito e la reazione sarà di gran lunga più aspra, forse incontrollabile. Alla luce di quanto sappiamo dalla storia delle rivoluzioni, non possiamo meravigliarci se gli studi sull’argomento dimostrano che un atteggiamento incoerente dei genitori in questioni di regole e disciplina produce figli ribelli.
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